Perché la buona fede è una sfida (di IP 102)


Vetro scheggiato

Nota d’intenti

Quello che segue non è una verità rivelata, ma un tentativo di leggere un ambiente culturale, a partire da osservazioni parziali — come tutte le osservazioni. Non è un giudizio morale, né un atto d'accusa: è un'ipotesi di lettura. Le dinamiche sociali (anche su Wikipedia) raramente si muovono tra bianco e nero, giusto o sbagliato. Sono fatte di zone grigie, contesti, pressioni, abitudini.

Per questo  cerco di usare un modello aperto, uno scenario che si possa discutere, integrare, persino smontare. Scrivo per dare forma a una lente interpretativa, non per chiudere il discorso. È un punto di partenza, non di arrivo. E se serve a far nascere domande o idee migliori delle mie, allora avrà fatto il suo lavoro.

La buona fede

La buona fede è un'idea nobile. Come valore culturale, non ha la stessa forza ovunque: tende a essere più radicata in società ad alta fiducia sociale, come quelle anglosassoni, e meno spontanea in contesti più diffidenti e relazionali, come le culture latine.

In realtà ovunque, come spesso accade con le belle idee, rappresenta una sfida. E lo è su due piani diversi: quello individuale (cioè dentro la testa di ognuno di noi) e quello sociale (cioè dentro le dinamiche della comunità).

Sul piano individuale

Presumere la buona fede non è un gesto istintivo, ma un piccolo esercizio di ginnastica mentale. Serve autocontrollo per non reagire d'impulso, tolleranza dell'ambiguità per non gridare subito al "complotto", e soprattutto una buona dose di empatia cognitiva: provare a capire cosa intendeva davvero l'altro, anche se si è espresso male, anche se ci ha irritati, anche se non lo conosciamo.

È uno sforzo attivo, mica una passeggiata: si lavora contro il proprio cervello che, per risparmiare energia, vorrebbe semplificare tutto in "amico vs nemico". È come fare yoga: serve equilibrio, calma, e la forza di non scrivere "vandalismo" o "POV" al primo disaccordo. Non facile, con tutto quello che succede anonimamente online. 

E qui entra in scena la scorciatoia: la fiducia verso chi conosci. Quando un utente storico scrive qualcosa di ambiguo, il nostro cervello si rilassa: "Massì, lo conosco, sicuramente intendeva bene". Nessun dubbio, nessun filtro. Fiducia preconfezionata, a basso consumo cognitivo. Perfetta per il nostro sistema nervoso, ma un po' meno per l'equità del progetto.

Sul piano sociale

E qui si fa interessante. Perché una cosa è l'atteggiamento individuale, un'altra è la struttura sociale che si crea. Studi empirici confermano che ambienti dove la buona fede è praticata realmente (non solo citata) sono più inclusivi, produttivi e capaci di autocorreggersi. Invece, dove vengono introdotte misure rigide di controllo, esse tendono ad allontanare gli utenti in buona fede. 

In teoria, la buona fede è una regola universale. In pratica, però, può diventare una password che funziona solo tra chi è "dentro". Può succedere così: la comunità si stabilizza, emergono figure riconoscibili, gruppi affiatati, aumentano le regole, crescono le attese di qualità dei contributi. La fatica di presumere buona fede verso chi è nuovo, ambiguo o critico, diventa troppo grande. Allora si comincia ad applicare la buona fede a chi se la è guadagnata (spesso, traduciamo: "a chi conosciamo bene"). Agli altri? Si risponde con il silenzio, la rigidità, o talora la diagnosi clinica di "utente problematico".

E così nasce la buona fede selettiva, quella che non richiede alcuno sforzo cognitivo, ma solo una memoria relazionale. È comoda, certo, e rende la comunità più efficiente nel breve periodo. Ma apre la porta a una deriva lenta e profonda: dalla collaborazione tra pari si passa alla cooptazione, dalla fiducia nel metodo alla fedeltà al gruppo.

E attenzione: non è malafede, non è un piano segreto. È solo un mix naturale di economia mentale e dinamiche sociali. Ma l'effetto finale è che la buona fede, da principio di apertura, si trasforma in una liturgia retorica: professata, ma praticata solo dove non siamo a disagio.

Una sfida culturale?

Nelle relazioni umane — e ancor di più nei contesti online, dove la malafede indubbiamente abbonda — è più naturale dubitare, proteggersi, cercare segnali di affidabilità personale, piuttosto che partire dal presupposto che l'altro agisca in buona fede. E in un contesto culturale come quello italiano, segnato da bassa fiducia sociale, relazioni gerarchiche e scarsa valorizzazione della trasparenza, questa sfida può essere un salto ancora più lungo. 

Wikipedia è anche un luogo dove molti utenti proiettano propri POV e luoghi comuni. Spesso cercano conferma delle proprie convinzioni più che confronto. Eppure, per produrre contenuti di qualità e davvero neutrali, serve proprio l'opposto: una pluralità di voci, numeri ampi e apertura costante. La buona fede non è un corollario: è il presupposto di tutto questo.

Si potrebbe osservare che, se non si riesce a praticare la buona fede, è perché — sotto sotto — si dubita che il metodo wiki funzioni davvero, garantendo neutralità e qualità attraverso la diversità e lo sforzo collettivo. Ironicamente, chi più si attacca alle regole per difendersi dagli altri, potrebbe rappresentare chi meno si fida del sistema che quelle regole dovrebbe far valere.

È pur vero che la buona fede non è mai garantita in partenza: la vedo piuttosto come una costruzione faticosa, da sostenere con regole chiare, accessibili e, soprattutto, applicate con coerenza. Costa energia personale e ha bisogno di un esercizio collettivo, una disciplina culturale condivisa e consapevole. In altre parole: la buona fede è una fragile costruzione sociale, non una convinzione privata. 

Rischi di derive

Nonostante i regolamenti, è osservazioni comune quanto questa disciplina sia difficile. C'è sempre la tendenza opposta — quella che la considera un'ingenuità, o peggio, un modo per evitare domande scomode. Quando cominciano a insinuarsi confini tra utenti, livelli, gradi di affidabilità della partecipazione, quando si riduce il ricambio, quando la diversità di idee diminuisce, quando le regole diventano sempre più complicate, se non si sterza coscientemente si può andare giù per la discesa. Magari senza accorgersi, senza una scelta deliberata. 

Quando poi si forma un gruppo ristretto di utenti storici o fidati, questo slittamento si accelera. Aggiungi la pressione operativa (decidere in fretta, chiudere le discussioni, non perdere tempo). Aggiungi il calo degli utenti attivi (che è causato da fattori esterni, ma anche forse in qualche misura effetto di un clima poco accogliente e poco trasparente?). E così la spinta iniziale verso una collaborazione aperta, dove regnano le regole, e gli amministratori sono al loro servizio, amministrando e non governando, perde forza e scivola verso un altro modello — quello della fiducia personale, della cooptazione, dei meccanismi informali. 

Può essere una evoluzione insidiosa e graduale. Un rischio. Eppure se alla fine si arriva a un clan interno, per quanto affiatato e motivato idealmente, esso non è compatibile con un'applicazione coerente del principio di buona fede. Perché la buona fede deve valere per tutti, non solo per chi fa parte del gruppo. 

A quel punto rischia di rimanere spesso solo la forma. Il principio continua a essere citato in linee guida, blocchi e discussioni, ma nella sostanza viene applicato in modo selettivo. Non sempre, ma basta poco per infrangere l'equilibrio. Diventa come un vetro sottile — basta una crepa, e si frantuma in mille schegge. E una volta rotto, è difficile da rimettere insieme: resta solo un disegno di crepe che non si può più ignorare.

Quando il problema è chi ne parla

Ho cercato di tracciare uno scenario di come può cambiare una comunità. Se in parte avesse fondamento, quali reazioni arriverebbero? Forse ci sarà chi minimizza, dicendo che "Wikipedia funziona comunque", chi sente la necessità di difendersi come se fosse un attacco personale. Qualcuno può provare a ribaltare la questione accusando chi critica di seminare sfiducia. Altri, semplicemente, farebbero finta di niente. Queste reazioni dimostrerebbero quanto sia difficile discutere con onestà della cultura interna del progetto. 

Non sorprenderebbe. Ogni gruppo o comunità fa fatica a discutere la propria cultura profonda. È quella parte che non si vede, ma che orienta tutto: abitudini, linguaggio, gerarchie implicite. Metterla in discussione può creare disagio, perché tocca l’identità collettiva e gli equilibri costruiti nel tempo. Per questo, chi pone certe domande viene a volte percepito come fuori posto o polemico. 

Diciamolo chiaramente: se uno solleva dubbi non sta attaccando nessuno, né pretende di avere la verità. Sta solo chiedendo di guardare apertamente quello che si è sedimentato nel tempo: automatismi, rapporti di forza, parole ripetute ma svuotate di significato.

E se la reazione sarà il silenzio, la derisione o la chiusura, vorrà dire che la buona fede sarà stata sostituita dalla fedeltà. La comunità smetterà di essere uno spazio di collaborazione, diventando una struttura che si difende da chi osa farle delle domande. A quel punto, chi resterà… resterà per convinzione? O solo per abitudine?

Se ci fosse invece apertura, che fare? servono strumenti concreti. Non servono rivoluzioni, ma piccoli meccanismi correttivi che rendano il sistema più trasparente, più aperto, e più ricettivo al dissenso motivato. Alcuni sono già stati proposti, migliorabili senz'altro.

Soprattutto serve una presa di cognizione della sfida culturale. Per evitare soluzioni di facciata, e di cadere nel "se vogliamo che tutto rimanga com'è, bisogna che tutto cambi".

Commenti

  1. "L'imossibilità del divenir altro. Nel suo significato autentico questa impossibilità è la struttura originaria del destino della verità, la dimensione che è già da sempre aperta al di là della fede e dunque della buona come della malafede e da cui è peraltro resa possibile ogni fede e quindi anche quella nel divenir altro." Severino, E. (2012). La buona fede: Sui fondamenti della morale. Italia: RIZZOLI LIBRI.

    L'unica dimensione etica che dovrebbe innervare wikipedia è "la verità", il resto è aria fritta: la categoria scudante le malefatte della crikka.

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